lunedì 18 novembre 2013

07. Anto, un cane e un califfone

Chiaramente, una volta riportato a casa, Che non poté restare a lungo. Trovammo sistemazione nella casa di campagna di mia zia. Di nuovo alla catena, lunga, ma pur sempre una catena. Lo andavo a trovare tutti i giorni, prima del mio rientro a Bari per l'inizio dei corsi. Lo andavo a trovare anche col nonno Vito che nel frattempo si era trasferito a casa nostra: mentre stavamo lì, mi insegnò a riconoscere alcune piante spontanee e parlavamo del partito e della militanza, delle manifestazioni e delle bandiere, della guerra e del lavoro da mezzadro.
L'inizio delle lezioni del secondo anno mi riportò alla mia vita da fuorisede e adesso avevo due motivi in più per tornare a casa durante il fine settimana: a casa stavo così bene -eravamo un bel terzetto- e ad aspettarmi 'sul Monte' il Che.
Poi, quella domenica mattina. Nove novembre millenovecentonovantotto. Tutto in dieci minuti. Bagno e barba e poi il petto che inizia a rantolare, 'Anto, chiama l'ambulanza!'. 'Vi prego, venite qui, in via Panaro. Mio nonno sta male, respira male, si piega su se stesso.'. 'Anto, vai a vedere se arrivano.'
Non l'ho visto di spirare, il tempo di andare sul sagrato della Cattedrale e tornare e nonno se ne era già andato. Quel pomeriggio mi rapai.
Tornai a vivere con mamma nel giro di poche settimane: misi a posto il califfone che nonno lasciò a casa nostra, con una cassetta rossa montata dietro, e con quello andavo da Cheghi. Ci andavo con i miei quaderni pieni di teoremi: stavo lì per ore a respirare, a ricostruire pensieri e anima, a leggere gli appunti, a guardare il mare. Io, un cane e un califfone.

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